Recensione ad Alessandro Manzoni, Storia incompiuta della rivoluzione francese (1941)

Recensione ad Alessandro Manzoni, Storia incompiuta della rivoluzione francese (Milano, Bompiani, 1941), «Leonardo», n. 9-10, settembre-ottobre 1941 (poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693, con il titolo Il Manzoni e la Rivoluzione francese).

IL MANZONI E LA RIVOLUZIONE FRANCESE

La storia occupa nelle intenzioni manzoniane un posto essenziale, anche se manca di quella autonomia che Vico le aveva già fornito e che la speculazione idealistica doveva attuare completamente. Storia, ma storia sacra, bisogna aggiungere se si vogliono vedere anche i limiti del pensiero manzoniano, storia governata da un potere che vi porta le sue leggi, la sua morale, le sue istituzioni si che possa in essa apparire una parte direttamente divina ed una parte di resistenza del male; quasi una parte demoniaca diremmo, se ci piacesse accentuare qualche fremito che resta invece sempre accuratamente inscritto in un cerchio di sensibilità aliena da ogni suggestione misteriosa. D’altra parte accanto al suo cattolicismo vi era la sua formazione razionalistica, vi era una esigenza di coerenza ragionativa, di spiegazione, un amore per la verità, per i fatti, che forma la trama minuta della prosa manzoniana: quella estrema familiarità poetica, quella limpidezza concreta nasceva su fatti, non su esaltate immagini, e semmai su immagini precise come fatti ordinati dall’intelligenza. La storia in quanto orma della provvidenza era un soffio gigantesco che anima da un’altezza infinita i fatti (5 maggio), ma viceversa i fatti spiccano netti e sicuri come oggetto essenziale della provvidenza: le creature umane vivono in questa relazione e tutta la loro complessa psicologia non mira a liberarle. Con ciò il Manzoni otteneva una perfetta unità, una realtà senza incrinature dal creatore al creato e al pane che Renzo raccoglie per la via di Milano; con ciò il romanzo assume un suo valore di mondo inalterabile; ma se risaliamo allo scrittore troviamo in lui anche perciò una certa senilità, un predominio della intelligenza che sistema gli uomini nella rete divina dei fatti. Tali appunti provvisori alla grandezza del Manzoni trovano una riprova sicura nel saggio su «La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859»[1]. Bisogna premettere che è un lavoro del periodo in cui la grazia artistica s’era spenta e lo stile del Manzoni veniva irrigidendosi nelle sue linee piú logiche, che l’opera è rimasta il moncone di un parallelo che doveva prendere luce soprattutto dalla seconda parte. Pure, con tante limitazioni, l’opera può adoperarsi legittimamente come coerente corollario delle sue idee storiche. Si può anche vedere un certo abuso nel taglio operato dal nuovo editore nel titolo perché, anche se inesistente, la seconda parte ha un peso ideale senza cui anche la prima appare squilibrata e con un eccesso polemico piú comprensibile nel confronto. Anche il sapore acidulo del saggio viene in parte spento da un positivo che il Manzoni trovava non in astratti schemi, ma in un fatto storico ugualmente reale. Ché il Manzoni non si sarebbe accinto a scrivere sulla rivoluzione francese se non vi avesse pensato in funzione di un altro pezzo di storia che giustifica la sua diversa fede, la sua diversa concezione della rivoluzione.

Il saggio intero voleva dire molte cose del suo animo: l’affermazione di un tipo di rivoluzione moderata e cristiana, il trionfo di un ideale liberale cattolico, l’allineamento del risorgimento italiano con movimenti concreti, costitutivi, nazionali piú che con la tipica rivoluzione giacobina, la sconfessione romantica dei principi illuministici dell’89. Sconfessione romantica che si poteva ricollegare sia alla reazione del nuovo sentimento nazionale iniziato dall’Alfieri, sia alla posizione mazziniana che cercava una nuova unità religiosa e popolare e vedeva nella rivoluzione francese il risultato di una mentalità materialistica «con le sue passioni di reazione, di distruzione, di individualismo». Ma Mazzini aveva veramente superato il giacobinismo con la sua nuova fede, con la sua sintesi attiva, e, se voleva parlare di «doveri dell’uomo», questo era un approfondimento del diritto primo dell’uomo alla libertà, cioè all’assunzione di doveri nella vita. E, pur superando i principi dell’89, egli vedeva la grandiosità di quel movimento, non lo limitava ad una questione di trasformazione di governo, non si fissava sugli episodi della violenza e sulle illegittimità legalistiche: «Il fine del secolo xviii era compire l’evoluzione umana presentita dalla antichità, annunziata dal cristianesimo, raggiunta in parte dal protestantesimo. Tra il secolo e quel fine stava una moltitudine d’ostacoli: inceppamenti d’ogni sorta alla libera spontaneità, al libero sviluppo delle facoltà individuali: vieti regolamenti e precetti che limitavano l’attività umana: tradizione d’un’attività incadaverita: aristocrazie che sembravano facoltà e forze: forme religiose che vietavano il moto. Bisognava rovesciarli tutti e il secolo li rovesciò... Affermò: gridò come Fichte: – libertà, senza eguaglianza non esiste libertà: tutti gli uomini sono eguali – poi si diede a negare. Negò l’inerte passato: negò il feudalismo, l’aristocrazia, la monarchia. Negò il dogma cattolico, dogma d’assoluta passività che avvelenava le sorgenti della libertà e impiantava il dispotismo al sommo dell’edificio. Furono rovine senza fine. Ma di mezzo a quelle rovine, fra quelle negazioni, una immensa affermazione sorgeva: la creatura di Dio, presta a operare, raggiante di potenza e di volontà: l’ecce homo, ripetuto dopo diciotto secoli di patimenti e di lotte, non dalla voce del martire, ma sull’altare innalzato dalla rivoluzione alla vittoria: il diritto, fede individuale, radicata per sempre nel mondo»[2]. A questa visione piú rapsodica, ma anche piú storica, il Manzoni contrapponeva una mentalità piú esatta, piú razionalistica, piú interessata al concreto di istituzioni limitate: non una rivoluzione ideale, ma una rivoluzione entro l’ambito di uno stato, al posto della quale potevano bastare delle riforme largite dallo stesso vecchio potere assoluto.

Se la maggiore cura del Manzoni in questo saggio voleva consistere nel distinguere rivoluzioni astratte da rivoluzioni concrete, il mancato sviluppo del confronto tra movimento francese ed italiano trova un compenso verso la fine del libro nel confronto istituito con la rivoluzione americana. Qui l’acutezza manzoniana, che sfiora una sottigliezza giuridica, anche se avvezza a tribunali divini, riesce a limitare l’universalità della dichiarazione americana in cui venivano riaffermati diritti sanciti e poi violati dal governo inglese e solo all’ultimo venivano allegati «in un modo astrattissimo, alcuni principi di diritto naturale, ma per applicarli ad un solo diritto, cioè a quello che ha ogni popolo di sottrarsi alla suggezione di un governo incorreggibile iniquo e dispotico. Era un manifesto d’indipendenza nazionale e non una norma di governo interiore»[3]. Una lotta dunque per diritti concreti, non astratti, per realtà non per sogni ideologici (e invece l’Alfieri aveva titubato se riconoscere o no la qualità di rivoluzione al movimento americano come a movimento originato da un motivo economico e non di pura libertà), mentre in Francia la generalizzazione era pari alla incapacità di una assemblea che doveva patteggiare con la folla turbolenta del Palais-Royal. Potremmo dire che la posizione manzoniana è dovuta all’amore romantico per il concreto affermato da una mentalità razionalistica che per poggiare sul sodo, sul reale (i tre ordini), finiva per cadere nell’errore stesso di cui accusava la rivoluzione francese: quel concreto vecchio diventava infatti astratto di fronte al vero concreto, la borghesia cioè con la sua forza, con la sua ricchezza, con la sua ambizione. Quella borghesia era allora reale e concreta quanto le «nazioni» dell’800. Inoltre, mentre il suo elevato liberalismo provava la stessa reazione provata alla fine del ’700 dal Parini, dall’Alfieri, dai primi liberali – se cosí possiam dire – italiani di fronte alle violenze della rivoluzione francese nei riguardi degli aristocratici e spesso di persone del tutto innocenti, egli sembrava ignorare o trascurare il motivo meno evidente, ma piú profondo di una umanità offesa legalmente dalle disuguaglianze dell’antico regime, la violenza attuale esercitata dalla semplice esistenza dei residui feudali e dalla oppressione di diritto della aristocrazia e dell’alto clero. Ignorava dunque, nella lotta di potenza, la realtà della potenza borghese, e nella lotta ideale i diritti di un popolo oppresso: accanto ad una violenza legalizzata e che aveva quindi il volto tranquillo della consuetudine e dell’ordine, una violenza di vendetta, illegale e quindi disordinata e barbara. Il grande equilibrio del Risorgimento italiano e la mancanza in esso di un vero avvio di questione sociale (si ripensi al lavoro di Rosselli su Mazzini e Bakunine) impedivano di vedere nella rivoluzione francese accanto alla rivoluzione borghese l’inizio informe della vita del quarto stato che si esprimeva nella violenza scomposta, nelle crudeltà della plebe scatenata.

Quando ci si sia spiegato il limite dell’indagine manzoniana, si può apprezzare anche il positivo che non manca certo nel libro, e l’impeto sincero che lo anima: sdegno contro la violenza della plebe e il comportamento del terzo stato che non sapeva e non voleva costruire un ordine nuovo né lavorare alla trasformazione dell’ordine vecchio, e nello stesso tempo anelito ad un governo liberale non privo di autorità, in cui l’individuo non venisse leso nella sua personalità e che si basasse su leggi concrete e non su principi ideologici astratti. Perché il liberalismo manzoniano non è certo la veste bella di un puro sentimento reazionario: «Io sono persuaso, almeno quanto chi mi grida piú forte, che un governo qualunque, o sia in mano d’un solo o di piú, ereditario o elettivo, stabile o provvisorio, come si vuole, non fa che il suo dovere facendo ai governati tutto il bene che può». Solo che se egli riconosceva il diritto del popolo a cambiare il governo che non va, negava che il popolo abbia l’autorità di rendere giusto un fatto ingiusto e soprattutto ribadiva che non c’è peggior dispotismo di quello «dei facinorosi sugli esseri onesti e pacifici»[4].

Il positivo (sia pure evidentemente astratto dalle reali condizioni storiche) è proprio nella difesa ad ogni costo della libertà come unico criterio della utilità e santità di una rivoluzione. Dice perciò dell’Italia del ’59: «Qui la libertà, lungi dall’essere oppressa dalla Rivoluzione, nacque dalla Rivoluzione medesima: non la libertà di nome, fatta consistere da alcuni nell’esclusione di una forma di governo, cioè in un concetto meramente negativo, e che, per conseguenza, si risolve in un incognito; ma la libertà davvero, che consiste nell’essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assicurato, e contro violenze private e contro ordini tirannici del potere, e nell’essere il potere stesso immune dal predominio di società oligarchiche e non sopraffatto dalla pressura di turbe, sia avventizie, sia arrolate»[5]. Perciò pone come inizio di una rivoluzione il sentimento di un diritto conculcato, sentimento che è la prima forza di un popolo che si risolleva e senza il quale ogni aiuto straniero è insufficiente[6]; «qualunque piú poderoso e anche leale aiuto straniero sarebbe insufficiente a rendere stabilmente libera e signora di sé una Nazione inerte; poiché, per mantenersi e per governarsi, le sarebbero necessarie quelle virtú appunto che le sarebbero mancate per concorrere alla sua liberazione. Un braccio vigoroso può bensí levare dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di camminare»[7].

Qual è la vita artistica, la vita intera del libro? Sussistono insieme due toni diversi: un tono preciso, minuto, analitica ricerca di errori, che vuol ricostruire sofisma su sofisma la macchina errata della rivoluzione francese, un tono caldo e appassionato di partecipazione sdegnata agli orrori ripetutamente denunciati nei colori piú decisi: pure, con tutti e due i toni, si rimane al di fuori di quella mirabile fusione creata dall’alta serenità del romanzo. Un tono troppo stridulo e un tono troppo accaldato, un procedimento troppo analitico, quasi sofistico, e una ricostruzione di episodi troppo tesi già inizialmente alla suscitazione di un affetto, di una compassione. In tutti e due i casi troppa tensione pratica: poca storia e poca arte. Ed anche lo stacco dei personaggi è modesto, condizionato sempre, da una parte, da una certa fretta di esempi e, dall’altra, dalla mancanza di una trasfigurazione fantastica dei caratteri che non manca mai nei Promessi Sposi.

Pure, la narrazione mantiene l’interesse acre della intelligenza e quasi fa sentire al lettore accorto la punta secca che incide sotto la prosa superiore dei Promessi Sposi. Nel ragionare si fermano i nodi dell’ironia con la stessa calma costruzione della frase: «come se ci volessero delle circostanze straordinarie perché gli uomini chiamati a deliberare si servissero di tutti i loro mezzi ecc. ecc.» (si è mai notato che dopo il Manzoni nessun altro scrittore italiano ha piú avuto, se non il Croce, una maniera cosí efficace di far risaltare l’ironia di una situazione intellettuale sbagliata?), nell’affermare nascono espressione generali da grande moralista: «È già una magra libertà quella che ha per cauzione il rispetto umano di chi fa sentire e alquanto ruvidamente, che potrebbe soffocarla, ma che cosa dire d’una libertà che ha a fare i conti con una indignazione ben piú terribile e superiore ad ogni rispetto umano?»[8]. Lo stile è spesso sapido anche linguisticamente di quell’umorismo altissimo che si raggiunge solo con una disposizione intellettuale di padronanza assoluta. «Finalmente (dice del 18 brumaio), dieci anni dopo essere state cosí fuori di proposito messe in campo dal Mirabeau, le baionette entrarono davvero in un’Assemblea di legislatori per farla sgombrare, e rincalzando quelli che erano renitenti alla intimidazione che ne era stata fatta, li determinarono ad uscire, quali dalle porte e quali dalle finestre del santuario delle leggi, come lo chiamavano spesso, e che per fortuna era quella volta al pian terreno»[9].

Quando lo stile si fa sereno, piú storico, lo sdegno si cerca un limite nel modulo classico della narrazione storica, ma anche lí un rallentamento finale, un’espressione piú idiomatica ci riporta alla familiarità, all’alta confidenzialità del grande romanzo: «Doveva una terza Assemblea, non già accogliere l’insurrezione nel suo recinto, ma uscirle incontro essa stessa per conoscere le sue disposizioni, ed essere respinta dal comandante della forza armata, Henriot, che le ingiunse di ritornare nella sua sala e di consegnare 34 dei suoi membri; e avendo tentato di uscire da un’altra parte, trovarsi a fronte Marat, che alla testa di alcuni mascalzoni, le intimò lo stesso comando, e rientrar lemme lemme a decretare l’arresto della maggior parte dei deputati proscritti dalla insurrezione»[10].

Che cosa manca dunque in queste pagine perché diventino la prosa matura dei Promessi Sposi, la prosa di una virilità pensosa e cosciente ? Lo sguardo calmo, divino che supera ogni praticità, nella sicurezza estetica con cui fatti ed uomini sono creati ed oggettivati in una storia concreta e pur nuova, umana e perfetta. Quello sguardo sicuro qui manca e manca la forza formale che aveva saputo dare al vigore sottile dell’intelligenza il calore dell’organicità, alla trepidazione sentimentale la fermezza del realizzato.


1 Pubblicata presso Bompiani con il titolo di Storia incompiuta della rivoluzione francese, Milano 1941.

2 Opere, ed. nazionale, VI, p. 359.

3 Op. cit., p. 357.

4 Op. cit., pp. 149 ss.

5 Op. cit., p. 25.

6 Egli pensa sempre ad un popolo diviso e privo dell’indipendenza nazionale e dimostra che la sua incomprensione della rivoluzione francese è anche frutto della identificazione libertà-indipendenza cosí diffusa nel Risorgimento e che faceva impallidire l’idea di una pura rivoluzione civile.

7 Op. cit., p. 34.

8 Op. cit., pp. 122-123.

9 Op. cit., p. 142. Maestria di stile che spesso diventa quasi abilità di pamphlet. «In progresso di tempo mutarono tutt’e due, ma per riuscire ad una medesima dolorosa fine. Il Thouret diventò un attivo promotore della Rivoluzione, il Chapelier cercò di moderarlo. Il 22 aprile 5794 il Tribunale rivoluzionario li mandò al supplizio nella stessa carretta» (p. 326).

10 Op. cit., p. 141.